domenica 30 settembre 2012

INCONTRI


Ero un ragazzino di circa otto anni ed ero solito accompagnare mio padre , o meglio era lui che mi portava con sé sulle montagne  Bergamasche e non solo. Quel giorno, era l’estate del 1958 , ci eravamo diretti  nella valle di Ornica. Mio padre frequentava spesso quelle zone della Val Brembana e , quindi,  le conosceva molto bene. Eravamo partiti presto con l’intento di raggiungere la cima del Valletto, una cima rocciosa che si trova sulla testata della Valsalmurano.
Dapprima saliti nel bosco, avevamo raggiunto le propaggini della montagna meta della nostra escursione. Fuori dal bosco si saliva su pendii abbastanza ripidi fin sotto i contrafforti del Valletto. Ero solo un bambino, ma mi piaceva già da allora camminare in montagna. Prima di raggiungere la rocciosa cima del Valletto si dovevano percorrere pendii erbosi e  tratti di ghiaione, esposti a Sud. E fu nel risalire lungo un pascolo ripido che la vidi : si crogiolava al sole, aveva la testa triangolare e le pupille simili a fessure. Il suo colore era del tutto simile a quello della roccia, cosicché solo un osservatore attento avrebbe potuto smascherare la sua capacità mimetica. E io lo ero. Rimasi immobile, non avrei saputo dire se paralizzato dalla paura o ipnotizzato dal fascino del rettile. Era la prima volta che vedevo una vipera. Ne avevo, però,  sentito parlare molto come di un mostro feroce, di un predatore spietato in grado di uccidere. Quasi senza più respiro  avvertii insieme al battito accelerato del mio cuore nitidamente un sibilo: la vipera mi stava minacciando ? Ero quasi sicuro che fosse così, solo anni e anni dopo avrei scoperto che le vipere sono timide, temono l’uomo e sibilano per difendersi e non per attaccare.
Io e la vipera stavamo di fronte e tutto intorno a me era fermo, cristallizzato: sentii il passo di mio padre avvicinarsi e, finalmente, riuscii a distogliere lo sguardo dal rettile. Mi guardai intorno. Il mondo aveva ripreso a girare ed era scesa una nebbia leggera.
“Era  una vipera, vero ?” chiese mio padre.  Deglutii annuendo. Lui mi prese per mano e, senza dire nulla, ricominciò a salire, tenendosi accanto.
Più avanti colsi una stella alpina, poi, un’altra e un’altra, erano bellissime. Era la prima volta che vedevo questo fiore.

sabato 29 settembre 2012

TRA LE MONTAGNE DEGLI DEI

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Creta è la più grande delle isole greche. E’ di origine vulcanica e fa da spartiacque tra Europa e Africa. Ha subito varie dominazioni, in particolare veneziana e turca, che hanno imposto sanguinose lotte, prima del raggiungimento dell’indipendenza.
Si dice che vi sia nato Zeus, indiscusso sovrano dell’Olimpo e che vi abbia fatto naufragio Menelao di ritorno dalla guerra di Troia.  Si narra anche che vi sia stato costruito il labirinto in cui era imprigionato il Minotauro e che proprio qui si bruciò le ali Icaro, nel suo folle volo.

L’isola di Creta è il paradiso per chi ama la montagna.
Ci siamo andati in dieci, tutti disposti ad affrontare disagi e difficoltà pur di godere di quella natura che sapevamo incontaminata.
Per quanto mi riguarda, sono partito dall’Italia un po’ prevenuto per via di una sfortunata esperienza vissuta a Creta vent’anni prima in occasione del mio viaggio di nozze. Era il maggio 1991, ma avrebbe potuto essere tranquillamente novembre, viste le condizioni atmosferiche: freddo e vento e pioggia e nebbia ci avevano ostacolato e innervosito non poco.
Ma ad accoglierci il venerdì di Pasqua in cui il nostro gruppo è giunto ad Hania è stato un clima mite, senza pioggia.  Le Lefka Ori, o Montagne Bianche, alte poco più di duemila metri, a Sud della città hanno subito attirato la mia attenzione: sono cime spoglie e aspre e la più elevata, il monte Pachnes, raggiunge i 2453 metri. Arrampicarsi è reso possibile da una strada che sale fino a Omalos, un piccolo villaggio che pare dimenticato da Dio e dagli uomini. 
Le catene montuose di Creta sono solcate da gole che le attraversano per poi giungere al mare. Tra queste le più famose sono  Imbros, Aradena di Irini e Samaria, dove vive l’Agrimi-Ibex, meglio nota come kri-kri, una particolare specie di capra selvatica e leggendaria in quanto quasi impossibile da avvistare.
Era aprile e la primavera ci è venuta incontro con i suoi profumi e colori: qui e là mimose e biancospini e, ancora, robinie, rosmarini e alberi da frutto.
La prima sera ci ha ospitato Antonio, un amico originario di San Martino di Castrozza,
che da alcuni anni abita ad Hania per sfuggire al freddo delle Dolomiti. Il suo alberghetto in centro ha un nome che è una promessa: Pan e Vin, ovvero qui si mangia genuino.
Ci attendevano  cinque giorni di trekking: saremmo partiti da Imnros e avremmo concluso il nostro itinerario a Paleochora. Abbiamo visitato  l’isolata regione di Sfakia, fino a Loutro, il sito archeologico dell’antica Phoenix e Aghia Roumeli in prossimità delle Gole di Samaria.  Il territorio di Sfakia é quasi una regione  a parte rispetto al resto dell’isola  ed è noto per la  bellicosità dei suoi abitanti, che si ipotizza dovuta alle difficoltà della vita.
La tappa più impegnativa ci ha portato da Aghia Roumeli fino a Soughia attraverso un tratto di costa  selvaggio e isolato, passando nei pressi di un’antica fortezza turca e delle rovine di Pikilassos, per finire vicino allo sbocco delle gole di Irini. Durante il tragitto vento forte a tratti e temporali si sono succeduti, ma al tramonto un arcobaleno bellissimo ci ha risarcito del mal tempo.  Lo scenario, a mio avviso il più interessante della costa meridionale di Creta, mi ha ricordato Selvaggio Blu  o l’attraversata del Sopramonte in Sardegna o, comunque, un ambiente di tipo carsico. Avevamo portato uno zaino leggero, senza tende e sacchi a pelo,   così abbiamo deciso di sostare  per la notte negli ospitali alberghetti che spuntano sulla costa, lungo cui camminavamo, seguendo sentieri talvolta anche solo abbozzati. Sotto di noi  il mare Libico in cui a tratti riuscivamo a scorgere le pinne dei delfini e in cui vive anche la maestosa testuggine marina, purtroppo impossibile da individuare dalla nostra distanza.
A volte ci spostavamo nella foresta tra cipressi, lecci, carrubi, ginepri, pini marittimi, olivi, olivastri,  fichi d’India. Il  tronco contorto di alcuni di essi (degli olivi specialmente) ci raccontava che erano  alberi vecchi di secoli. Fringuelli, merli, codirossi, tordine  con il loro canto   ci rendevano più energici perché più allegri.  Cisti, anemoni, papaveri erano ovunque si posasse lo sguardo. In questi luoghi  abitati da pastori abbiamo  incontrato  capre con al collo un campanaccio e pecore ammassate  quasi a proteggersi l’una con l’altra, nonché  ovili e  casolari, talvolta sulla riva del mare o addirittura sopra gli scogli.  Laghetti e sorgenti sono un po’ ovunque: consentono l’abbeveraggio degli animali al pascolo, che sono la grande ricchezza  di questa popolazione di pastori. A loro si deve la deliziosa feta e la saporita ricotta caprina, vere salvezze per l’economia locale.
Abbiamo incontrato pareti di roccia dalle bizzarre colorazioni, come il bianco, il grigio e  il rosso: un’attrazione  irresistibile per qualsiasi scalatore con l’animo avventuroso perché abitate oltre che da colombi selvatici da aquile, avvoltoi, altri rapaci minori e dalle pernici chukar. Questi uccelli si alzano in volo all’improvviso con un frullo d’ali che fa trasalire, poi si buttano lungo i canaloni delle montagne lanciando un grido che pare  un segnale d’allarme. Altre volte  emettono un canto che riecheggia tra le rocce. 
A rendere lo scenario ancora più incantevole c’erano fiori che con audacia erano riusciti a crescere su quel terreno tanto arido. In alcune zone dell’isola  la terra ha un intenso colore rosso scuro  come pure i sassi che occhieggiano regalando altre macchie di colore e altre suggestioni.
Di tanto in tanto, camminando a pochi passi dal mare tra gli ulivi vecchi di secoli, riuscivamo a scorgere le vette più alte dell’isola coperte di neve e il contrasto tra la distesa d’acqua e l’impervia roccia ci regalava una stupita sensazione di immensità. Raramente la costa   riesce a fondere il paesaggio marino e quello montano in un’unica simbiosi fatta di vette, pendii, coste rocciose, faraglioni, scogli, spiagge, tutti sferzati da un vento a volte così forte da lasciare le piante piegate come segno del suo passaggio. 
Ovunque il  giallo delle ginestre:  in mezzo al verde della macchia, tra le rocce,  sui pendii scoscesi. Le margherite aggiungevano altro giallo, ma spezzato dal bianco, così da offrire  uno spettacolo di ingenua bellezza.
Abbiamo incontrato rovine appartenenti all’antica storia greca o ad altre civiltà e chiesette bianche a picco sul mare. Le più antiche si devono ai Veneziani che a lungo furono i signori del luogo. All’interno delle chiesette  immagini sacre, candelabri e reliquie capaci di evocare un senso di sacralità e di rendere l’atmosfera solenne. 

Ma non si vive di sola arte né di sole bellezze naturali: la cucina cretese, frugale ma gustosissima si è rivelata all’altezza del nostro appetito  e dei nostri esigenti palati italiani.